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San Giuseppe è patrono di molti comuni siciliani, Giuseppe Pitrè scriveva che «dei Santi il più carezzato patrono è San Giuseppe che occupa tredici comuni». Alcuni ironizzano sul fatto che essendo San Giuseppe "avvocato dell’impossibile" e patrono degli avvocati, sia il santo più adatto per assolvere il compito di patrono di un comune siciliano. Il suo culto in Sicilia si manifesta con usanze rituali quali i trionfi, le vampe, il banchetto, gli altari addobbati, la raccolta di elemosine e le processioni.

I trionfi o meglio triunfi, in dialetto, erano componimenti poetici, in parte recitati e in parte cantati, a carattere religioso. Servivano a magnificare avvenimenti connessi alla vita dei santi, o miracoli da loro operati; molto popolari nel palermitano fino al XIX secolo, emergevano soprattutto quelli dedicati a S. Giuseppe e a S. Rosolia. Per pochi soldi, erano eseguiti, davanti agli altarini delle strade o in case private, da uno o più sonatori soprannominati "orbi" (ciechi).

Gli "orbi", parte integrante della cultura popolare siciliana, venivano chiamati anche in occasione di fistini (‘feste di ballo’) che si tenevano in case private il sabato sera o durante il Carnevale, o per esibirsi in melodiche serenate sotto i balconi delle ragazze. Perchè orbi? Pitrè in "Usanze e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano" scrive: «I suonatori di violino in Sicilia sono quasi tutti ciechi, e perciò chiamati, per antonomasia “orbi”. L’orbo, nato o diventato tale nei primi anni, non sapendo che fare per vivere, impara da fanciullo a suonare, e non solo a suonare ma anche a cantare. Andando in giro per le case de’ clienti (parrucciani) è condotto a mano da un ragazzo qualunque, che ad ogni sonata trova sempre con chi baloccarsi a fare a pari e caffo, a far meglio al muro, alle buche, a’ cinque sassi a ripigliare. Nel 1661 gli orbi di Palermo si costituirono in congregazione con rendite proprie per donazioni di pietosi protettori».

Gli orbi, come cantori e sonatori, non erano una peculiarità della Sicilia, ma si rifacevano a una tradizione di respiro europeo: sappiamo infatti che nel ’700 i ciechi russi si offrivano alle famiglie patrizie come narratori di storie e che i kaleki (lett. ‘zoppi’), cantori russi di canzoni sacre, erano molto spesso descritti come ciechi; mentre i ciegos, attori girovaghi spagnoli, non sempre ciechi, fondarono una confraternita a Madrid nel XVIII secolo.

Le vampe (anche vampi o fucate), rogo di "cose vecchie", benché proibiti sono ancora in uso in campagna e in periferia. A Siracusa, tradizionalmente si bruciavano le vecchie barche, nel resto di Sicilia, vecchi mobili. Probabilmente sono i resti di antichissime "feste del fuoco", legate certamente a un primordiale culto solare.

L’uso di creare delle mense su altari particolari allestiti per lo scopo, fuori dalla porta di casa, è diffuso in tutti i paesi cattolici dell’area del bacino del Mediterraneo: il cibo, simbolico e rituale, è offerto in una specie di cappelletta ricoperta di rami d’alloro e mirto, decorata con piccoli pani, detti appunto "di San Giuseppe", legati da cordicelle colorate. Quest’uso continua in molti comuni siciliani, così come la questua, che è atto di penitenza o di umiliazione, spesso per grazia ricevuta. Una volta, tutto ciò che veniva raccolto con le elemosine si portava in giro con la "rètina", una lunga teoria di muli e asini riccamente bardati.

Per San Giuseppe è tradizione anche organizzare delle tavulati: delle cene pubbliche per i poveri. Le cene si offrono sia a figuranti che rappresentano Gesù, Maria e Giuseppe, in fuga verso l’Egitto per sfuggire ad Erode, ma soprattutto ai poveri della città (spesso i figuranti vengono scelti proprio tra di essi). Queste cene votive discendono direttamente dalla festa ebraica di "Succòth", cioè la festa delle capanne, detta anche festa dei tabernacoli. Si ricordano così le capanne erette dagli ebrei vaganti nel deserto per ben quarant’anni, dopo la biblica fuga dall’Egitto. Anche gli ebrei di Sicilia celebravano quella loro antica festa con cene di ringraziamento per sette sere di fila con tavole ricche di cibo e dolciumi. La tavola, chiamata "arcamesa", era addobbata con i primi splendidi "drappi da tavola" ricamati e quei "panni da bocca" antenati dei nostri tovaglioli.

La cucina ebraico-siciliana obbediva alle leggi della Casherut, purezza rituale dei cibi, che traeva a sua volta origine da motivazioni igieniche: non si mangiavano carni di animali morti per cause naturali, incidentali, o ancora non note, e che, quindi, potevano portare malattie. La carne era quasi sempre quella di ovini, caprini e tanto pollame. Era assolutamente proibito l’uso di sugna, strutto o sego, e si usava soltanto olio d’oliva.
Le minestre occupavano un posto di primaria importanza: ceci, lenticchie e cavoli, soprattutto. Tante verdure cotte, servite calde, con un filo d’olio, oppure crude in insalata. Zucchini, cipolle e porri fritti impanati o in pastella, uova sode oppure in frittata con la cipolla. Trionfavano le polpettine fritte, le melanzane fritte affettate o intere, ma anche farcite di carne e spezie.

Il pesce per essere kasher doveva avere pinne e squame. Di conseguenza niente anguille, molluschi e crostacei, con la sola eccezione dell’aragosta. Latte e formaggi, per prescrizione talmudica, dovevano essere serviti in apposite stoviglie. Ogni quindici giorni si faceva il pane di farina di frumento. I pani, ricoperti di sesamo, erano mandati dalla famiglia del futuro sposo ai consuoceri per allontanare il malocchio. Durante il piccolo ricevimento che precedeva le nozze si offrivano i "tarales", dolci a forma di braccialetto, fatti con farina, olio d’oliva e zucchero e antenati dei nostri taralli. I loro dolci più comuni hanno resistito in Sicilia fino ai giorni nostri: il torrone, la cotognata, i taralli, le piccole mele gialle ricoperte di miele o di zucchero caramellato e pure ceci, mandorle e carrube tostate che si chiamavano "turrado".

Come a ogni festa religiosa, anche a S. Giuseppe non si perdeva l’occasione per preparare un piatto o un dolce tradizionale o un vero e proprio pranzo festivo: non è da intendersi come il trionfo dei piaceri della gola sullo spirito, ma come atto rituale che si compie in comunione e perciò gradito al Santo. Essendo il 19 marzo, quasi sempre in periodo di Quaresima, durante il quale ci si asteneva completamente dal consumo di carne, le tavole siciliane festeggiano San Giuseppe mangiando di magro: pesce, contornato da ortaggi pregiati e primaticci.

Primo piatto tradizionale è la pasta con le sarde, servita con una abbondante spolverata di "muddica atturrata" (pan grattato saltato in padella); tipico secondo era la vopa, boga in italiano, economico pesce della cucina siciliana. Piatti particolari, tipici di questa festa sono anche : il pasticcio di Scàmmaro, un tortino di pasta frolla ripieno di verdure e acciughe; le crespelle di San Giuseppe, a base di riso e le sfinci di San Giuseppe simili alle zeppole di San Martino.

La gastronomia rituale in Sicilia

La festa di San Giuseppe in Sicilia: tra vampe e tavulati, aspettando la primavera

I piatti della festa

Pasta con le sarde Vope con nepitella Pasticcio di Scàmmaro Crespelle di San Giuseppe Sfinci di San Giuseppe
> San Giuseppe in Sicilia
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