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I piatti della festa
Nella sapienza popolare il trapasso dall’orgia del Carnevale all’austerità della Quaresima e alla letizia della Pasqua era espressa dal proverbio Nesci tu, porcu manciuni; trasi tu, sarda salata; veni tu, donna disiata.

Il “tempo di Quaresima" precede ritualmente le celebrazioni pasquali. Prassi penitenziale che arrivò dall’Oriente e fu adottata a Roma a partire dall’anno 384. “Quadrigesima dies”, cioè quarantesimo giorno prima della Pasqua che s’inizia a contare partendo dal Mercoledì delle Ceneri, subito dopo il carnevale, fino al tramonto del Giovedì Santo.

Perché proprio quaranta? Numero simbolico citato nella Bibbia: quaranta furono i giorni di digiuno di Mosè, di Elia e del Cristo stesso. Altrettanti furono i giorni del diluvio universale che, a suo modo, fu un periodo di purificazione per l’intera umanità. Poi fu inteso come periodo di preparazione alla salvezza, alla riconciliazione, che la riforma liturgica fa terminare con il “calare della notte” del Giovedì Santo.

Inizia da quelle Ceneri che una volta venivano imposte sul capo di quei penitenti che attendevano il giorno della riconciliazione con un sacco addosso, e con quell’abito se ne andavano in giro. Per quaranta giorni, naturalmente.

Più tardi, venuta meno la penitenza pubblica, la Chiesa ne estese il rito a tutti i credenti per ricordare il comune destino mortale conseguenza del peccato originale.

Le ceneri che si usano sono quelle ottenute dalla combustione dei rametti degli olivi benedetti in occasione della Domenica delle Palme dell’anno precedente. Il rito della benedizione prevede che vengano asperse e incensate per tre volte dai sacerdoti mentre si recita l'antifona "Asperges” senza canto e senza salmo. Uno dei sacerdoti, quindi, le sparge sul capo del celebrante. Dopo vengono imposte a tutti i fedeli con la formula latina «memento homo quia pulvis es, et in pulverem reverteris», che sarebbe il più comprensibile «ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai».

San Girolamo, il più erudito dei Padri della Chiesa, eremita nel deserto, accennò all’Eden vegetariano e fece riferimenti alla “Età di Saturno” di cui parlavano gli antichi. Asserì che l’uomo fu cacciato dal paradiso terrestre per un peccato di gola! Che fu interpretazione assai diffusa nei primi secoli del Cristianesimo. Ne consegue che solo l’astinenza può farci ritrovare l’antico stato di benessere spirituale.

Perché poi l’astinenza debba riguardare la carne, quando il primo cedimento fu la mela offerta dal serpente, resta una questione irrisolta. Nella sua requisitoria contro l'uso alimentare della carne, il santo ci ricorda che Giovanni Battista nel deserto si nutrì di locuste e non di carne. Ma le locuste non sono carne?

Per Sant'Agostino, altro Padre della Chiesa, è esattamente il contrario: la perfezione consiste «nel non aver bisogno di astenersi dalla carne» per raggiungere uno stato di perfezione spirituale. Il modello vincente, purtroppo, fu quello di San Girolamo: modello della penitenza, dell’astinenza dalla carne.

Per affermare la necessità cristiana di rinunziare alla carne, i partigiani di questa scelta non esitarono a forzare i testi evangelici enfatizzando singoli passaggi, isolandoli dal messaggio di fondo e stravolgendone così il significato. I sostenitori dell'astinenza tennero a precisare, in ogni caso, che si trattava di un “modello di perfezione” non per tutti i credenti, una sorta di optional. Insomma, ai santi si richiedeva molto di più che ai normali fedeli.

Nacque quella che si chiamò “Regola del Maestro”: «carnem comedere bonum, abstinere melius».

Ma già a partire dal IV secolo la Chiesa obbligò “tutti i cristiani” a livelli diversi di astinenza, con particolare attenzione alla Quaresima. Serviva più che altro a identificarli come gruppo, come comunità di fedeli, ben diversamente dal vegetarianesimo radicale di San Girolamo.

Arrivarono a centotrenta i giorni di astinenza dell’anno!

I Concili si occuparono anche dei sacerdoti che non punivano il consumo della carne nei casi previsti dalla legge canonica e cioè quando si trattava di carni di animali uccisi con la violenza o senza fuoruscita di sangue, o immolati a idoli. La carne, in ogni caso, fu ritenuta pericolosa giacché rappresentava l’essenza e il simbolo del corpo, della sua corruttibilità.

Non dimentichiamo che si procura con la morte di un essere vivente e non può che alimentare la natura mortale e violenta di chi la consuma.

A meno che non fossero malati, i monaci non potevano mangiare carne «di quadrupedi e di volatili che siano», che non venivano serviti nella sala comune del refettorio, ma soltanto in «camera» o nel refettorio dell infermeria. Locale, quest ultimo, che diventò una specie di ghetto alimentare riservato ai mangiatori di carni. “Càmmaru” si chiama la carne in siciliano, partendo proprio da queste prescrizioni comuni a tutti gli Ordini. Molte fonti ci informano che, una volta guariti e ritornati nella comunità, monaci e frati erano tenuti a fare ammenda chiedendo pubblicamente scusa del loro cedimento «sia puresso costretto dalli infermità»!

Non mancano le citazioni di «deplorabili cedimenti alla carne» di monaci che fingevano malesseri per «cammaràrisi». Cioè rinchiudersi in cella o nel refettorio degli ammalati.

Naturalmente durante la Quaresima era lecito mangiare pesce. Nella Storia lausiaca, che racconta la travagliata esistenza di una santa donna di nome Candida, si legge: «Delle creature che hanno sangue e calore di vita ella non volle assolutamente far cibo, ma si limitò a prendere del pesce e delle verdure condite con olio nei giorni di festa». Come se il pesce, in apparenza privo di sangue, fosse in qualche maniera simile a cibi come le verdure!

Una dieta rispettosa della vita animale traspare anche dalle fonti letterarie, dove il regime alimentare del buon fedele è descritto come assolutamente vegetariano e qualificato come “innocuus”.

È il mito del paradiso che ritorna.

Lo stesso che suggerisce la connotazione assai ingenua circa il consumo delle verdure, ritenute «il primo cibo degli uomini prima che iniziassero a mangiare cereali e carni».

In Sicilia, in ogni caso, fu il pesce a essere assunto sulle mense di aristocratici e prelati come esempio classico di alimentazione rispettosa del “mangiar di magro”. Legumi e verdure li lasciammo ai poveracci.

Ci ricorda Giuseppe Pitrè che «i digiuni, le penitenze e tutte le pratiche raccomandate dalla Chiesa davano il carattere di questi quaranta giorni, lunghi, uggiosi, insopportabili. Anche oggidì, che la Quaresima è ben altra da quella di prima, di una cosa fastidiosa che non finisce mai si dice “longa quantu la Quaresima”... ovvero anche “è ’na Quaresima”... Tra le penitenze c’era di non dover mangiare carne né latticini. Però chi prendeva, contro il pagamento di grani 52, la Bolla della SS. Crociata veniva dispensato dal mangiar di magro in certi giorni della settimana. Allora il cibo consueto era di legumi, di salame, di pesce e di altro: cibi ingratissimi dopo le larghezze del carnevale e i capricci culinari di ogni tempo».

La Quaresima in Sicilia: i lungi giorni di astinenza

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