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I piatti della festa

Le origini del Natale

Il Natale in Sicilia

La gastronomia

Il presepe in Sicilia

Nei Vangeli non c’è alcuna traccia sulla data del Natale. Lo stesso Clemente Alessandrino (150-216), ricercatore attento di fatti relativi alla vita di Cristo, scrisse d’ignorarne la data di nascita, come del resto i numerosi storici che si sono accostati al problema.

Resta quel 25 dicembre come data simbolica legata al solstizio d’inverno e alla festa romana del Dies Natalis Solis Invicti del culto di Mitra, divinità venutaci dalla lontana Persia, di cui sappiamo solo la data: “Vili Kalendas Ianuarias”.

Ora l’accostamento del sole (al solstizio) al Cristo fu abituale nei primi secoli del Cristianesimo, sicché non parve infondato collocarne la nascita a quella data. Fu papa Leone Magno nel V secolo a darle fondamento teologico, forse per sradicare simboli pagani legati alle religioni solari. Secondo il Concilio Vaticano II il Natale ci «rivela che soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo».

In effetti, nel Natale cristiano confluirono simboli e tradizioni molto antichi: basti pensare all’abete, considerato, già nell’antico Egitto, “albero della natività”, mentre in Grecia l’abete bianco era sacro a Elàte, dea della luna nuova e protettrice delle nascite. Inoltre, il legame fra l’abete e il solstizio faceva parte di lontani riti scandinavi legati alla nascita di un non meglio identificato fanciullo divino.

Anche in Sicilia, e fino all ultimo Ottocento, ci furono piante legate al Natale, come la mortella, l’oleastro e il puleggio, puleju in dialetto, che fiorisce la notte di San Giovanni (24 giugno) e si conserva per la notte di Natale.

Scrisse Pitrè: «A mezzanotte in punto, al nascere del Bambino, esso rifiorisce e si ravviva. Ciò accade specialmente col puleggio di cui si adorna la grotta del Bambino nel presepio. Non v’è casa dove manchi il puleggio e quindi il proverbio: La casa eh 'un ce’è puleju, hi maritu è tintu e la mugghieri è peju».

Anche il vischio è pianta beneaugurale di rigenerazione e immortalità, forse perché, essendo parassita, non ha radici in terra, e cresce sui rami formando ciuffi che restano verdi per tutto l’anno.

Naturalmente il Natale siciliano è diverso da quello degli altri «per la ragione semplicissima che ci bastano le fiamme del sole a riscaldarci; sicché il camino nellenostre abitazioni è raro come un carneo greco; lo spazzacamino poi è un animale che non appartiene alla nostra fauna». Scrisse Enrico Onufrio nel 1882, in un impeto di siculo sciovinismo.
In Sicilia in questo periodo è tutto un fiorire di presepi (viventi o artistici) da visitare. Nei tempi passati il presepe era relegato nell’ambito ristretto delle chiese. Dobbiamo aspettare il ’700 affinché il presepe, grazie ai pasturara, si diffonda nelle case dei nobili. Ed è in questo periodo che vige, nelle case nobiliari, l’usanza di avere uno o più presepi portatili racchiusi in mobiletti dalle pareti di cristallo chiamati scarabattole.Nell’arte dei presepi in cera si affermò il grande ceraiolo siracusano Gaetano Zummo che, sul finire del XVII secolo, ebbe incarico di costruire un presepe in Genova.

Ai pastori in cera e stoffa seguirono quelli in terracotta, avanzi di creta che permettevano all’artigiano di arrotondare il suo misero guadagno. Erano meno artistici ma avevano il pregio di essere più a buon mercato e perciò poter essere acquistati dalle classi popolari.

In questi ultimi anni assistiamo ad un revival presepistico. Insomma, il presepe diviene business: mostre, rassegne, premi presepi viventi, tutte occasioni per incrementare il turismo e favorire il commercio.
Distinguiamo intanto il pranzo della Vigilia di Natale, di magro, da quello del Natale, talmente vario che ci pare quasi impossibile enumerare tutte le pietanze. Pasta ncaciata (‘pasticcio’) del Palermitano, pasta ncasciata (al forno), gallina ripiena di riso con fegatelli e anteriora (‘interiora, visceri di animali’) e cotta in brodo, timmula catanese (timballo di riso, tuma ‘toma’ e altri ingredienti), pastizzo del Pachinese (tritato, ragù, ricotta e broccoli), arancine, caponata (‘melanzane ed altri ortaggi, olive, capperi conditi con aceto e poi fritti’), mpanata con l’anguilla (‘specie di focaccia ripiena’, sfògghiu (‘sfoglia’) ragusano. Per il Siracusano l’anguilla, il capitone, la murena.

Dolci tipici? Anche qui lasciamo la parola a Giuseppe Pitrè.

«La cena, rallegrata sempre dal vino, ha pur essa le sue vivande e cibi di uso. Le così dette “sfinci", assai gradite al popolino, sono delle paste frolle fermentate, che si friggono e spargonsi di zucchero o di miele [...]
Noto è celebre per la sua “cutugnata”, Modica per la “petrafennula”, Piazza [Armerina] pel “turruni”, Borsetto per la "pignulata”, Cammarata per le paste di “vinu cottu”, Corleone per i dolci di miele, Salaparuta per i lavori di rabesco sopra dolci pieni d’impasto di fichi secchi; e anche nel Cinquecento erano celebri le “mustazzoli di Missina”, i “cuddureddi di Catania” e i “nucatuli di Palermu”.».
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